ODDONE LONGO

Professore emerito nell'Università di Padova

Presidente dell'Accademia Galileiana

 


 

Le scoperte rivoluzionarie

 

Galileo
a Padova

 

L'osservazione telescopica scopre un universo infinito

 

 

 

 

Diciotto furono gli anni trascorsi a Padova da Galileo Galilei, dal 1592 al 1610, dei quali in seguito egli si ricorderà come dei migliori anni della sua vita. Nel corso di essi, egli accrebbe sempre più il suo prestigio presso il senato veneto, ma anche presso i rettori dell'Università padovana, che gli accordarono uno stipendio via via crescente, ed alfine assai rilevante. Si aggiunga che la Serenissima, gelosa tutelatrice delle proprie prerogative, e garante, al di là di un formale ossequio per il culto cattolico, di una libertà religiosa e di una indipendenza da Roma quali si riscontravano in pochi altri stati della Penisola, rintuzzò efficacemente i tentativi dei nemici del Nostro di inoltrare al Sant'Uffizio, tramite l'Inquisitore, denunce di empietà se non di eresia che avrebbero messo a rischio la sua libertà se non la sua vita.
Dopo il trasferimento a Firenze, quale matematico e filosofo del Granduca di Toscana, le denunce dell'Inquisizione fiorentina non si fecero attendere, aprendo una lunga e laboriosa vicenda che si sarebbe conclusa nel 1632 a Roma, col processo in S. Maria sopra Minerva, e con l'abiura che salvò Galileo dal rogo per eresia, ma non dal confinamento per il resto della vita ad Arcetri, col divieto di professare e propalare quella dottrina copernicana per la quale egli si era coraggiosamente battuto fino allora – dunque con l'obbligo di abdicare alle proprie più profonde convinzioni scientifiche.
Qual era il nocciolo della questione? Nicolò Copernico, un canonico polacco (1473-1543) che aveva studiato anche a Padova, e si era laureato a Ferrara, aveva formulato un secolo prima un'ipotesi cosmologica rivoluzionaria, che collocava al centro del mondo non più la Terra, bensì il Sole, facendo della Terra uno dei pianeti orbitanti intorno al Sole, al pari di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Questo sistema eliocentrico, che relegava fra i ferri vecchi il sistema geocentrico aristotelico-tolemaico, passò dapprima inosservato alla pur occhiuta attenzione dell'Inquisizione romana. Fu solo nel 1616 che la Congregazione dell'Indice dei libri proibiti condannò l'opera di Copernico, considerata eretica soprattutto per l'affermazione della immobilità del Sole. Era questa, e non il moto della Terra, una proposizione "formalmente heretica", in quanto contrastava con un passo della Bibbia in cui Giosuè intimava al Sole di fermarsi; il motus terrae era solo opinione erronea.
Nei diciott'anni trascorsi a Padova Galileo raggiunse traguardi sempre più eccelsi nell'esplorazione dell'universo, resi possibili, a partire dall'inverno 1609-1610, dall'acquisizione del cannocchiale, più tardi chiamato telescopio, che consentiva di ingrandire e avvicinare all'occhio dell'osservatore i corpi celesti, non diversamente da quelli terrestri. Il cannocchiale non fu un'invenzione di Galileo; i primi cannocchiali circolanti nella Serenissima erano venuti dall'Olanda, ed erano stati impiegati soprattutto per l'osservazione terrestre, da luoghi elevati, e in alto mare dall'albero delle navi. Ma Venezia, che aveva nelle vetrerie di Murano una risorsa invidiabile di tecnologia vetraria, consentì a Galileo di perfezionare le lenti dello strumento, che fu apprezzato dallo stesso governo dogale. Ma il salto di qualità decisivo ai fini delle fortune del futuro "telescopio" e del progresso dell'astronomia si ebbe solo nel momento in cui Galileo si risolse a puntarlo verso il cielo, in una notte di luna piena, per osservare meno di lontano il nostro satellite.
Chiunque abbia qualche esperienza di osservazione col cannocchiale sa che la prima necessità è quella di munire lo strumento di un supporto che lo tenga immobile: diversamente si vedranno, non i singoli astri, ma un confuso turbinio di puntini luminosi che nulla ha più a che fare con la volta celeste osservata ad occhio nudo. Al tempo stesso, il cannocchiale deve lentamente assecondare il movimento della volta celeste, e della stessa Luna da Est verso Ovest. Uno dei motivi che avrebbero indotto in seguito molti avversari della teoria copernicana a negare la validità delle osservazioni di Galileo, fu appunto, accanto alla preconcetta malafede, l'incapacità di maneggiare correttamente il cannocchiale.
Nelle notti serene di quell'inverno, dal suo giardino di Borgo dei Vignali in Padova (l'odierna via Galileo Galilei), Galileo poté così osservare a proprio agio il satellite, riscontrandovi l'esistenza di montuosità e avvallamenti, resi visibili dall'ombra proiettata dal Sole. Fu un duro colpo ad una delle teorie di base della cosmologia aristotelico-tolemaica, che attribuiva ai corpi celesti una natura perfetta, divina: costituiti dalla "quinta essenza" (al di là dei quattro elementi terrestri: terra, acqua, aria e fuoco), essi si contrapponevano alla natura imperfetta e soggetta a continue trasformazioni del nostro pianeta, che pure costituiva il centro intorno al quale ruotavano le sfere celesti. Ma proprio questa natura piena di imperfezioni e impurità faceva sì che sulla Terra, dopo la cacciata dall'Eden, albergasse la stirpe umana. Ed era sulla Terra, per redimere questa dal peccato, che il figlio di Dio era morto sulla croce per risorgere dopo due giorni dalla tomba. Se si tiene presente tutto questo, si comprenderà come, per la chiesa cattolica – ma anche per le altre confessioni cristiane – fosse inconcepibile degradare la Terra ad un corpo celeste come gli altri, negandole la qualità di centro dell'universo. Una qualità resa irrinunciabile dal fatto, assicurato dal Nuovo Testamento, che proprio sulla Terra, e non su di un altro pianeta, si era svolta la sacra storia di Cristo e della sua nascita, morte e resurrezione.
Alla scoperta della natura "terrestre" della Luna ne fecero seguito in quei mesi altre non meno sorprendenti. Il cielo stellato, se osservato ad occhio nudo, consentiva di noverare poco più di 1200 stelle di varia grandezza: una cifra che era già stata raggiunta nell'antichità, e che era rimasta pressoché invariata. Ebbene, l'osservazione telescopica fece scoprire a Galileo l'esistenza di un numero molte volte maggiore di astri, non raggiungibili ad occhio nudo; era un altro duro colpo assestato all'astronomia tolemaica, anche perché appariva evidente che la visione di un universo in cui tutte le stelle "fisse" fossero inchiodate su di un'unica sfera risultava indifendibile. Per di più, appariva sempre più probabile che la differente grandezza visibile delle stelle fosse effetto della diversa lontananza; e chi poteva assicurare che, potenziando ulteriormente il cannocchiale, sempre nuove stelle, e più remote, non sarebbero apparse, e così via, all'infinito? L'universo tolemaico era un universo chiuso e limitato, circoscritto appunto dalla sfera delle fisse; tolta questa, l'universo poteva dilatarsi liberamente, e non doveva essere concepito necessariamente come finito. Un universo infinito, alla maniera di Giordano Bruno, di cui erano ancora calde le ceneri del rogo che lo aveva, nel primo anno del secolo, arso vivo in Campo de' Fiori? Certo fu questo che indusse Galileo a non portare ulteriormente avanti il discorso sulle dimensioni dell'universo, e a concentrare le proprie osservazioni sul sistema solare.
Ma anche così, emergevano sempre nuove scoperte, tali da confutare definitivamente la cosmologia tolemaica. Fra queste, decisiva, e anche gravida di novità per il seguito della vita di Galileo, fu la scoperta dei satelliti di Giove. Dei satelliti del massimo pianeta, che oggi sono noti nel numero di 16, ve ne sono quattro visibili anche con un cannocchiale non particolarmente potente, qual era quello di Galileo, e quale sarebbe oggi un cannocchiale a 20 ingrandimenti. Accadde pertanto, sempre in quei primi mesi del 1610, che osservando Giove Galileo si avvedesse della presenza nelle sue vicinanze di alcune stelline assai più piccole, in numero variabile da 2 a 4, e in posizioni sempre mutevoli, ma che non si allontanavano mai dal massimo pianeta. Dopo alcune incertezze, e a seguito della meticolosa registrazione nei suoi appunti delle posizioni via via assunte dalle quattro stelline, Galileo giunse alla conclusione che non poteva trattarsi se non di quattro pianetini satelliti che ruotavano al maggior pianeta. Una scoperta che assestava un nuovo colpo, anche se meno diretto, alla cosmologia tolemaica, che non prevedeva l'esistenza di satelliti di uno dei cinque pianeti… La scoperta dei pianeti gioviali comportò tuttavia delle conseguenze fatali sui futuri destini di Galileo, come vedremo fra poco.
Prima di trattarne dobbiamo tuttavia occuparci di un altro aspetto della ricerca di Galileo, che fu condizionato, se non determinato, dal suo soggiorno padovano. Senza di esso, Galileo non sarebbe mai arrivato a formulare une teoria delle maree, nella quale la vicenda dei "flussi e reflussi del mare", come era allora chiamata, era assunta come prova della rotazione-rivoluzione del nostro pianeta. Tutti sappiamo, e questa nozione esisteva già nell'antichità classica, che le alte e basse maree sono effetto della gravitazione, e cioè dell'attrazione esercitata dalla Luna sul nostro pianeta, la cui conseguenza più vistosa è appunto l'alternarsi di alte e basse maree: le acque marine ed oceaniche sono infatti, per la loro natura, soggette a questa attrazione. Al tempo di Galileo, Keplero aveva tentato di spiehare le maree come effetto di una "forza attrattiva" (virtus tractorea) esercitata appunto dalla Luna. Ma al tempo di Keplero – e di Galileo – non esisteva ancora una teoria della gravitazione generale potesse giustificare scientificamente questa ipotesi: solo Isaac Newton, nato lo stesso anno della morte di Galileo, avrebbe formulato questa teoria.
Nei primi anni del secolo, Galileo aveva tutto il diritto di rifiutare la 'virtus tractorea' kepleriana, proponendo per il moto delle maree cause diverse da quella dell'attrazione lunare. Galileo si trovò così ad aver ragione sul piano del metodo, ma non fu così su quello del merito. Egli fu indotto in errore dal caso particolare delle maree di laguna: data la posizione orientale delle bocche di porto (Lido e Malamocco) rispetto alla città, che determina un movimento di marea da Est ad Ovest e viceversa, egli credette di poter asserire che il flusso e riflusso del mare fosse l'effetto del moto di rotazione su se stessa del pianeta, combinato con quello di rivoluzione. La teoria venne comunque duramente contestata dalla Chiesa, e dallo stesso pontefice Urbano VIII; al processo del 1632, essa fu uno dei capi d'accusa contro Galileo, anche se non si trattava di una proposizione "formalmente eretica", ma solamente "erronea".
Ma ritorniamo ai pianeti gioviali e alla loro scoperta nel 1610. Si trattava di quattro "pianetini" anonimi, e questo anonimato poteva venir sfruttato, come Galileo lo sfruttò chiamandoli "pianeti medicei" in onore di Cosimo II de' Medici, Granduca di Toscana. Una carta giocata da Galileo a ragion veduta: si trattava di entrare nelle grazie del Granduca in vista di una agognata nomina a "matematico e filosofo" del Granduca stesso presso l'università di Pisa. Nomina che seguì subito, con la contestuale precisazione "senza obbligo d'insegnamento". Col trasferimento a Pisa-Firenze Galileo conseguiva così vari scopi: ritornare nella sua terra; contare su una retribuzione accresciuta; vedere il proprio tempo liberato dagli obblighi di insegnamento nello Studio padovano, dal quale i rettori veneziani non lo avrebbero mai esentato, per potersi dedicare esclusivamente alla ricerca.
Non poteva prevedere forse, e comunque non previde, che il passaggio al servizio del Granduca sarebbe stato l'inizio dei suoi guai futuri. Fu infatti a Firenze che iniziarono le denunzie contro di lui all'Inquisizione, partite già nel novembre del 1612, e rinnovatesi nel 1614 e nel 1615, e la cui vicenda si concluse, come si è detto, nel processo romano del 1632 e nell'abiura.
Finché fu professore a Padova, Galileo aveva potuto godere della protezione della Repubblica Veneta, che aveva avuto come teologo e canonista fra' Paolo Sarpi, e che non consentì mai, pur nel formale ossequio alla religione cattolica, interferenze del Papato nella propria politica culturale.
Non accadde altrettanto col Granduca di Toscana, signore di uno stato autocratico assai meno indipendente dalla "protezione" papale, di quanto lo fosse una repubblica governata da una oligarchia assai gelosa della propria autonomia politica.

Padova - Torre dell'orologio

 

Padova piazza dei signori

 

Cattedra Galileo

 

Univ. Padova - Aula Magna

 

Padova Caffè Pedrocchi

 

Padova - Palazzo del Comune

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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